IF BARCELONA 2021: ‘MAZE’, ‘UNTOLD’ I ‘ÈDIP’, AL TEATRE SAGARRA, SANTA COLOMA DE GRAMENET

Di Toni Rumbau, Putxinel.li, 08 Novembre 2021

 

Siamo di fronte ad una compagnia giovane ma allo stesso tempo pienamente radicata oggi nel panorama teatrale Italiano, dopo aver presentato in anteprima diversi spettacoli e installazioni con un'ottima accoglienza, sin dalla sua fondazione nel 2014. Composto da Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio, UnterWasser si definisce un gruppo di ricerca collocato al crocevia tra 'teatro di figura e arti visive', secondo quanto riferito dalla compagnia.

Coerente con questo desiderio di sperimentazione e ricerca, Maze è un'indagine ben riuscita nella ricerca di un proprio linguaggio visivo basato su luci e ombre una volta che quest’ultime, liberate dalle loro tradizionali strutture (schermo e luce fissi), si inseriscono nell'intersezione, intesa come spazio espressivo e visivo aperto in varie direzioni e trasformazioni.

Non si sa mai cosa uscirà da una intersezione quando gli elementi in gioco lo fanno per la prima volta. Ma anche quando si conoscono gli elementi e li si mescolano mille volte, i risultati finiscono sempre per sorprendere chi si ferma ad osservarli. Metafora della vita stessa, che non cessa di essere il risultato di una costante sovrapposizione creativa e al tempo stesso distruttiva, il gioco di luci e ombre è uno dei modi migliori per sperimentare e giocare con la metafora visuale delle intersezioni.

Per farlo, le tre artiste di UnterWasser hanno creato un intero universo, disseminando il palcoscenico di piccole strutture fatte di bastoncini di legno, tele e fil di ferro (con un lontano riferimento all'opera di Alexander Calder), che lasciano che la luce li attraversi segnando la forma dei loro confini, rivelando curiose trame, profili di volti curiosamente vividi, personaggi dei fumetti collocati in strutture impossibili, mentre creano un interessante gioco di prospettive che cambiano a seconda del muoversi del punto di luce.

C'è una chiara similitudine con il linguaggio cinematografico, per cui il movimento della luce sarebbe quello della macchina da presa o anche l'occhio dell'osservatore che guarda dietro la macchina da presa. Se togliamo quest'ultima ci rimane l'occhio, metafora ancora più interessante, aperta ad essere anche lo sguardo dello spettatore che si lascia trasportare dalle mani di chi manipola i piccoli fasci di luce. Un teatro, dunque, dallo sguardo libero che si permette di distorcere la geometria dello spazio, creare prospettive impossibili e approfondirle per scoprire nuovi primi piani nascosti e insoliti della realtà.

UnterWasser proietta tutti questi incroci visuali su uno schermo fisso in fondo al palco, in modo che la similitudine cinematografica diventi ancora più esplicita. Un cinema, però, curiosamente artigianale in cui gli spettatori vedono perfettamente sia il movimento dei misteriosi manipolatori della luce (le tre artiste vestite di nero della compagnia) sia i modelli delle strutture vuote e le loro mille e una incomprensibili composizioni geometriche che prendono forma e significato quando la loro ombra viene proiettata sullo schermo.

Lo schermo diventa il crogiolo o la fiaschetta dove avvengono le trasformazioni visive di questa alchimia dell'intersezione, visibili dagli spettatori e dalle stesse artiste, nello stesso tempo che ne avviene la "preparazione".

Ed è senza dubbio questo doppio sguardo che il lavoro di UnterWasser ci offre ciò che lo rende ancora più interessante: cosa e come, dentro e fuori, l'oggetto reale e il suo negativo, realtà e immaginazione, oggetto e immagine... Un esercizio di auto-consapevolezza e auto-osservazione tra le pulsioni e gli opposti fondamentali della vita, che ci permette di continuare ad indagare la nostra soggettività.

Maze e il lavoro di UnterWasser parlano di tutto questo. Il pubblico di Santa Coloma, sorpreso e affascinato, si è lasciato trasportare dalle immagini create. Alla fine, mentre continuava a rimuginare su ciò che aveva visto ma consapevole della forza dell'esperienza, ha regalato alle tre artiste italiane applausi sinceri e prolungati.

MAZE @ Teatro Cantiere Florida: l'arte in una carezza.

Di Sonia Coppoli e Chiara Guarducci, Gufetto Press, 02 Novembre 2020

 

MAZE, in tournee dal 2018, è la seconda produzione della Compagnia Unterwasser. Arriva a Firenze il 15 ottobre, al Teatro Cantiere Florida, che è sempre attento alla contemporaneità. Quest'opera magica, pervasa di tenerezza, ha il dono di rapirci, dandoci accesso al ricco materiale inconscio in cui l'anima nuote e si nutre. Apprezziamo questa fioritura, questa carezza salvifica, ancor più in una fase storica oppressa da paure e disorientamento.

Oggetti colorati sono cosparsi sul palco come a disegnare un labirinto... di acchiappasogni o trappole? Quando il buio scende, si accende la tela dello schermo, lentamente si anima. Emergono suoni e immagini embrionali. Un passaggio di luce, come un riverbero dorato, torna tra i filamenti neri che fluttuano dentro a un'acqua amniotica, dentro a quel magma comune a ogni origine possibile. 
Il racconto di questa live performance non ha bisogno di nessuna parola, mostra la sua potenza onirica fin dalle prime immagini che smuovono il luogo segreto di un primaQuesto prima si espande col suo calore enigmatico lungo tutto lo spettacolo. È una non terra e quel che conta è lasciarsi trasportare, sentire e non afferrare e riconoscere. I nostri codici attinenti al controllo si struggono come burro, siamo nel pieno di un'immaginazione liquida che buca la realtà. Un battito, una palpebra che si apre e si chiude. La protagonista resta invisibile, è tutto in soggettiva, con accurati cambi di inquadratura. La cifra poetica è incessante, la colonna sonora si fonde mirabilmente a questo viaggio dai tempi dilatati. Lo sguardo di questa creatura, da quando viene al mondo a quando senza strappi lo lascia, non perderà mai l'incanto di un infinito che si dischiude da ogni dettaglio. È questa visione trasfigurante la membrana e il midollo della 'pellicola', che riesce a condensare in pochi passaggi le tracce essenziali di una vita.

Dalla culla la creatura si vede a ridosso i balocchi sospesi, le facce dei genitori e la parete azzurra della propria stanza. I colori predominanti sono l'azzurro, il rosso e l'ocra. Crescendo sale sulle giostre dei giardini ed è dalle forme di queste strutture che vede la città e gli altri. Quando entra anche lei nel girotondo più oscuro e intermittente degli adulti. A dare fisicità alle scene e alle figure che scorrono sono le presenze, gli oggetti fatti a mano che le tre performer sollevano e muovano dentro la luce del proiettore con sorprendente abilità e precisione. Una grafica ricca di riferimenti pittorici, volti che ricordano Calder, Modigliani e Schiele, forme alla Mirò, scale e porte moltiplicate che evocano la geometria di Escher, ogni immagine è memorabile. L'estetica ha una corrispondenza con l'estatico e non ha mai cedimenti. Dal sogno in cui si immerge dopo un'anestesia all'ospedale entra la carne del corpo: una lenta e ipnotica nuotata in piscina, ripresa da sotto la superficie, le braccia si muovono armoniosamente per aprire l'acqua e continuare, continuare, fino a un paesaggio astratto, indistinto, vivo delle pulsazioni più profonde, come a portare l'inizio in un oltre ancor più lontano. E infine il sogno o il ricordo dell'amore, in un ballo tra figure leggerissime e l'apparizione del burattinaio che le muove, forse metafora dell'artista e di ognuno di noi. Ma le letture sono molteplici sempre, a ognuno i suoi risvegli, le sue suggestioni. Oceano, gabbiani e barche di una mattina qualsiasi. Fine. Una delicatezza rarissima, tutta al femminile. L'emozione è palpabile. Lasciamo controvoglia quest'atmosfera, e prima di uscire dal teatro, ci avviciniamo agli oggetti magici, quelle costruzioni, quelle sculture tridimensionali di fil di ferro, cartone e legno che han permesso questa bellezza.

Dalla meraviglia dello stupore all'ironia del surreale.

di Michele Di Donato, il Pickwick, 28/02/2020

 

Maze, uno spettacolo senza parole che parla con la poesia delle immagini, dei suoni, mostrandoci una storia costruita con la polisemicità degli strumenti adoperati; è come assistere a un cartone animato guardandolo dal di dentro, mentre viene realizzato, col gioco della creazione scoperto, offerto a vista dalle tre autrici/creatrici in scena (Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio), eppure senza che ciò vada in alcun modo a inficiare la magia dell’invenzione creativa, lo stupore e la meraviglia della realizzazione.
Nel leggere i riferimenti a cui si è ispirata la concezione di Maze verrebbe necessario (utile), a chi ha poi come compito quello di scriverne una recensione, per prima cosa andare a studiare, spulciare, scartabellare tali riferimenti al fine di interpretare, decodificare, trovare chiavi di lettura che delineino strati di senso per ciò che magari sfugge o è sfuggito a un primo approccio, per “leggere” l’opera nei suoi risvolti, nelle pieghe delle sue sfaccettature, nei meandri di quel labirinto – ché è proprio questo che la parola “maze” vuol dire in inglese, “labirinto” – in cui invece scegliamo consapevolmente di perderci. E di lasciarci trasportare; seguendo il flusso delle immagini, dei suoni, delle evocazioni, di una storia che possiede i contorni sfumati di un disegno impressionistico e la partitura multiforme di un’opera espressionista.
Per cui prendiamo atto – e a spanne riconosciamo – i fili dell’esistere dei tessuti intrecciati di Maria Lai o l’ispirazione modiglianesca delle figure, così come appuriamo essere ispirati ad Alexander Calder i fili di ferro che stilizzano profili di volti umani, o alle sculture di Edoardo Tresoldi le gabbie metalliche che delineano parvenza di grandi edifici, mentre la suggestione sonora di Seven Variations ci accompagna facendo assieme alle musiche originali di Posho da morbido tappeto sonoro a giochi d’ombre che si trasformano in immagini concrete di una storia. Storia che s’affresca sul fondale per quadri successivi ed evocativi, seguendo il filo di una vita dal suo sbocciare, mostrato quand’ancora è solo amniotica promessa d’esistere e accompagnata lungo le tappe cadenzate e significative di un’esistenza intera, mostrata in soggettiva, offrendo al nostro occhio la possibilità di coincidere con quello di chi della storia è protagonista, vivendone le fasi cruciali, i momenti lieti e quelli critici, sintetizzati per salti immaginifici col tenue lirismo di immagini che si susseguono a comporre una drammaturgia compiuta e coerente. Prendiamo atto di quel che riconosciamo e prendiamo nota di quel che possiamo apprendere; eppure scopriamo che la “filologia” della messinscena, per quanto importante e significativa, non è quel che maggiormente ci interessi; molto più, assistendo a Maze, ci piace lasciarci guidare lungo il labirinto delle evocazioni seguendo il filo delle suggestioni, abbandonandoci a questa partitura delicata e leggera che attraverso la magia – ancorché scoperta e offerta in visione – delle ombre ci lascia l’evidenza di un candido senso di stupore.

MAZE, la materia in movimento del gruppo Unterwasser.

di Francesco Bove, L’armadillo Furioso, 8 Febbraio 2020

 

Il collettivo di ricerca Unterwasser, composto da Valeria BianchiAurora Buzzetti e Giulia De Canio, ha portato in scena al TAN di Napoli Maze, una performance live dove le ombre di sculture e di corpi tridimensionali vengono proiettate dal vivo su un grande schermo.
Secondo posto al Premio InBox 2019, Maze è un lavoro completamente artigianale che, senza l’utilizzo di parole, esplora la forza delle immagini e della musica dando la possibilità allo spettatore di interpretare e collegare tutto quel che sta vedendo.

Non c’è, quindi, una trama vera e propria ma il luogo fisico del teatro diventa scrittura di scena che distorce in profondità le percezioni che attraversano la vita. Non c’è una presenza vera e propria sul palco, le tre performer sono sempre di spalle al pubblico e in penombra, e il gesto attoriale travalica i suoi limiti fermentando in altro. Mi viene in mente una lettera di Cristina Campo alla sua amica Matizia in un punto in cui la scrittrice le spiega che la pietra saponaria è un ciottolo cinese che sta sott’acqua ed è ricoperta di una materia morbida come il sapone che, al contatto con l’aria, diventa dura come la giada. Per questo motivo va lavorata sott’acqua.

Ecco, “Maze” è uno spettacolo “unterwasser”, “subacqueo”, lavorato sott’acqua perché, al contatto con l’aria, potrebbe indurirsi e perdere tutta la sua poesia. Lo spettatore, quindi, accompagna le tre performer in questo viaggio mentale per toccare il fondo del mare, col rischio di “ferirsi con coralli taglienti” (e il rischio è davvero dietro l’angolo).
Un teatro che è anche installazione mobile, che sfrutta la tecnica del montaggio cinematografico per creare un tessuto narrativo speciale, evocativo, che non si pone dei limiti linguistici.
Si rimane incantati dinanzi a qualcosa di semplice e profondo, uno spettacolo pieno di poesia e di suggestioni, per certi aspetti crudele, che crea ponti inattesi con le nostre personali dimensioni oniriche.

MAZE, le vertigini di una soggettiva

Di Gemma Criscuoli, Le Cronache di Salerno, 03 Febbraio 2020

 

Divenire un personaggio, nutrirsi delle sue sensazioni, ricordando lo scopo essenziale del teatro: regalare alla vita nuove possibilità. Conduce il pubblico alle vertigini di una lunga soggettiva “Maze”, l’allestimento di Unterwasser che ha visto sul palco del centro sociale Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio nell’ambito di Mutaverso, il progetto artistico di Vincenzo Albano. Matteo Rubagotti ha progettato le luci, mentre le musiche portano la firma di Posho. I “ferri del mestiere” delle tre artiste- acqua, cartone, legno, lucidi, modellini, piccole fonti luminose, plastica, volti in fil di ferro estremamente stilizzati e per questo universali- sono fin dall’inizio sotto gli occhi degli spettatori, orchestrati secondo un raffinato gioco di illuminazione per proiettare sullo schermo figure e situazioni colte dall’occhio della protagonista, che coincide con quello della platea. È inoltre significativo che solo alla fine si capisca che si tratta di una donna, perché chiunque può identificarsi con questo sguardo aperto su un mondo familiare ma non prevedibile, perché fonte e specchio di emozioni contrastanti. Fa parte della vocazione del palcoscenico mostrare la natura artificiale di ogni movimento e ampliarne le suggestioni. Sulla base di un immaginario legato a Tresoldi, Modigliani, Emily Dickinson, si seguono le vicende di una presenza femminile dal concepimento fino alla scoperta dell’amore tra passi falsi e sospensioni liriche. Si coglie un dissidio tra un’esistenza che obbedisca ai ritmi della propria interiorità e l’alienazione di un progresso che non sa essere davvero tale: la pace carezzevole degli alberi dalla finestra dell’infanzia cede il posto al frenetico andirivieni di ombre (perché non si è altro che questo in un mondo materiale) che soppianta senza pudore una giostra allegra di bambini. Il girotondo finale degli amanti compenserà almeno in parte il senso di prigionia di giorni che si svuotano come il bicchiere avidamente bevuto o che inseguono sensazioni forti e distruttive (l’affollarsi dei volti in una discoteca, uniti in un unico impulso di sopraffazione, fa da preludio a una flebo in un ambiente squallidamente privo di ogni cosa, chiara allusione a un coma etilico). Il tuffo in piscina si tramuterà in un movimento libero nel mare, perché solo perdendosi nella propria ansia di libertà, senza ceppi o categorie di nessun tipo, è possibile ritrovarsi e ridare senso al proprio respiro. Il cielo stellato che affonda pian piano nel buio nella conclusione è accorata speranza: spetta solo a noi decidere su cosa varrà la pena aprire gli occhi domani.

MAZE al Cerchio. Un labirinto di molte emozioni.

di Valeria Ottolenghi, Gazzetta di Parma, 15 Gennaio 2020

 

Si era incontrato “MAZE, Labirinto” della compagnia Unterwasser questa estate al festival di Sansepolcro “Kilowatt” e se ne era colto il complesso fascino di raffinata poesia e sofisticato artigianato, lasciando il desiderio di poterlo rivedere presto per goderne nuovamente l’incanto, rielaborazione di esperienze immerse in una condizione quietamente onirica.
E questo piacere di confine tra teatro di figura, ombre, arti figurative e cinema si è potuto rinnovare a Parma, all’auditorium di via Cuneo, per merito del Teatro del Cerchio, anche per il felice legame con Inbox, la rassegna di spettacoli in gara tra le più qualificate in Italia (Unterwasser finalista 2019), un’importante ospitalità di rara meraviglia, la compagnia vincitrice, a Radicondoli, della prima edizione del premio Valter Ferrara.
All’ingresso il pubblico poteva osservare sul palcoscenico un’infinità di creazioni dei più vari materiali, in fil di ferro, ispirate a Edoardo Tresoldi, d’oggetti sospesi alla Calder (piccoli rami in particolare) sagome sottili alla Giacometti, ma anche acqua, carta opaca piegata a ventaglio, forme rotonde che si intuiscono essere mini mondi che si sarebbero quindi svelati nell’azione, e molto altro seminascosto alla vista: Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio, autrici, attrici/animatrici si muovono silenziose in forma rituale, a vista, con cautela e grazia, tra quegli oggetti che danno quindi vita, attraverso più fonti di luce, alle immagini proiettate su un grande schermo nel fondo del palcoscenico. Se i riferimenti visivi sono percepibili, più difficile riconoscere le ispirazioni poetiche, citate, per esempio, Emily Dickinson, Etty Hillesum, e Wislawa Szymborska. Nella preziosa colonna sonora non ci sono parole anche se a tratti si coglie una sorta di rumore di fondo di voci, per i bambini che giocano, per gli adulti raggruppati insieme, forse in metropolitana. Sfondi che mutano, pure visioni di colori, suoni, movimento, ma anche situazioni che sottintendono storie, elementi narrativi che possono arricchire di senso, di partecipazione emotiva, gli spettatori stessi, così per l’ospedale in soggettiva, con i chirurghi piegati sul letto operatorio, o per il ballo a coppie in riva al mare.
Utilizzate molte tecniche del cinema tra carrellate e primi piani. Di speciale magia le azioni in acqua, nuotare in piscina ma anche sfiorare con le dita un fondale mosso. Lunghissimi applausi per “maze”, labirinto di molte emozioni.

MAZE: nel labirinto di luci e ombre che è la vita

di Francesca Ferrari, Teatropoli, 12/01/2020

 

Non è semplice accostarsi al genere di teatro proposto dalla compagnia Unterwasser, sinergico e talentuoso collettivo al femminile che sabato 11 gennaio ha presentato all’Auditorium Toscanini, attuale sede del Teatro del Cerchio, “Maze”, produzione finalista all’ultimo Premio InBox. Non è semplice per come siamo abituati oggi ad intendere il ritmo della vita, il tempo dell’Essere e del Fare, per come sia disarmante e sorprendente ammettere a noi stessi che, sì, poesia, incanto, leggerezza, grazia, artigianalità, tutti ingredienti di cui questo lavoro è pregno e generoso nel restituire, siano proprio gli elementi che più di altri mancano alla nostra abituale percezione quotidiana.

È questa l’apparente difficoltà che s’incontra ma che si supera in fretta, nell’immanenza di un racconto che procede per immagini e visioni in cui specchiarsi e ritrovarsi. Ci riscopriamo bambini e forse un po’ ingenui, fragili, delicati, sensibili, sicuramente meno intransigenti e più accoglienti, nell’ammirare con stupore le creazioni minuziose, dettagliate e soavemente suggestive, realizzate con fil di ferro, legni, reti, cartoni, materiali poveri, piccole sculture e architetture movimentate a vista, coreografate dalla sapienza delle tre brave performers Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio e vivificate dalle fonti luminose che, manovrate con cura e attenzione, restituiscono sul grande schermo del fondale proiezioni di forme, linee, luoghi, volti, significati. Una danza di segni, frammenti esistenziali e sensazioni. Perdiamo l’ausilio del dialogo nel comprendere la storia che sopraggiunge però attraverso un canale comunicativo più antico e universale, quello delle immagini, qui evocatrici di incontri, tappe salienti della crescita, memorie, sogni, dolori, sentimenti.

È un pregiato e raffinato teatro di figura che attinge alla tradizione del teatro d’ombre, la fa propria consapevolmente, e la sorregge con forza ammaliante attraverso il ricercato tessuto sonoro firmato da Posho. Corpi, oggetti, rumori, musiche, ispirazioni poetiche ed estetiche (soprattutto con riferimento esplicito ai ritratti in ferro di Calder), disegni, figure, tratteggi, ombre e luci concorrono e si mescolano a suggerire la traccia drammaturgica, che altro non è se non il racconto di una vita, dal concepimento all’età adulta.

Il labirinto del titolo è dunque quello che si dipana nella mente di chi guarda e, per illusione cinematografica, di chi osserva dietro a quel primo piano prospettico, cioè noi. Diventiamo così, per riflesso effimero ma efficace, i protagonisti delle carrellate e soggettive illuminate sullo schermo, del primo batter di ciglia, degli istanti giocosi trascorsi al parco durante l’infanzia, dei ricordi legati a un piacevole paesaggio naturale o a un rumoroso e frenetico scorcio cittadino, di intimi turbamenti giovanili causati forse da superficiali frequentazioni, del dolore sommesso di un ricovero ospedaliero, di scale e porte che si intersecano e si aprono come pensieri improvvisi, ingovernabili; e poi di una lunga nuotata, una immersione profonda, sorta di simbolica rinascita, che ha inizio nella vasca di una piscina ma arriva per magia ad attraversare fantasiose profondità marine, fino ad emergere nella scoperta di un amore e commutare in un firmamento luminoso (dove abbandonarsi e serenamente allontanarsi ?)

Un universo onirico traboccante di vita, anima, luce e materia in cui si resta piacevolmente sospesi, sorprendentemente rapiti dalla complessità e dalla bellezza delle cose più “semplici”.

UnterWasser: delicatissimi sguardi fra metropoli e sogno

di Francesca Romana Lino su Platealmente, 04/12/19.

 

La bellezza del teatro, specie di quello contemporaneo, è la molteplicità delle sue forme espressive. Tramontata l’epoca del teatro da camera o del teatro borghese, ad esempio, di quello civile di narrazione, più spesso capita, oggi, che teatro sia performance.

E, anche qui, c’è più di un modo per intenderla.

Se vero è, infatti, che, come le parole, anche le categorie altro non sono che una scorciatoia del pensiero, i filosofi antichi insegnavano che il pensiero pensa l’essere. Lo shakespeariano Romeo, però, puntualizzava: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Mercuzio, di quante non ne sogni la tua filosofia”, come a dire che la realtà spesso eccede i limiti della pensabilità

E così capita che l’irrefrenabile macchina della fantasia teatrale sogni labirinti ipnotici e dalla delicatezza rara, come accade in “Maze” (in inglese labirinto) di UnterWasser.

Finalista a In-box 2019 e per questo in replica il 1° dicembre al PimOff (fra i partner del circuito), questa live performance propone la visione onirica di un’esistenza, giocando, in modo impeccabile, con un’innovativa forma di teatro d’ombra a proiezione d’immagini. In soggettiva e attraverso gli occhi della sua protagonista – di più: addirittura attraverso lo sbatter di palpebre, nelle scene del suo vissuto infantile –, ci mostra il fluire della vita nella liquidità labirintica di una città. Da prima ancora della nascita si spinge a… chissà, forse verso una personale visione della vita dopo la vita. Quel che sorprende è la minuzia di certi dettagli o la straordinaria efficacia prospettica di quando si guarda il mondo dalle più decentrate angolazioni come capita nella realtà.

C’è molto di cinematografico, in tutto ciò.

E il solo modo per renderlo, teatralmente, non poteva che passare attraverso quella contaminazione, che segna tanta parte dell’espressione artistica contemporanea. Così Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio – le tre anime di UnterWasser – scelgono di annullarsi, quasi, per mettersi al servizio del loro progetto. Le vediamo in scena, sì, ma il senso del loro esserci è farsi sguardo – e, anche qui, in più di un’accezione.

Si fanno sguardo, perché è solo attraverso la loro manipolazione che l’istallazione mobile prende vita.

Sul palco, una moltitudine di manufatti e caroselli dalla plurievocativa suggestione artistica: dal disegno a linea continua di Steinberg, alla morbidezza del tratto di Modigliani, dalla permeabilità e leggerezza delle architetture in rete metallica di Tresoldi alla produzione di ritratti in fil di ferro di Calder. Quello che le tre giovani, ma dalla solida formazione accademica e universitaria, fanno è animare tutto ciò con un sistema di luci, che, giocando sul movimento impresso, crea un effetto pellicola cinematografica intenzionalmente naïf. Lavoriamo per condividere l’esperienza dell’incantamento, per noi irrinunciabile, attraverso la ricerca di un’estetica raffinata, frutto di un accurato studio sui materiali e sulle tecniche, dichiarano, a proposito del loro lavoro. Ed è proprio l’incantamento, l’effetto sortito sul pubblico. La luce, il movimento e la loro sapiente manipolazione delle minimalistiche sagome in fil di ferro riescono a restituirci un inspiegabile effetto realtà grazie anche all’ambientazione sonora spesso a impronta realistica; solo di rado, si smaterializza in tappeti acustici minimalisti e sospesi.

Si fanno sguardo, poi, perché, scegliendo di animare a vista le loro macchine sceniche, offrono al pubblico l’occasione di spiarne il processo.

Sembrano dirci che ciò che conta non è il prodotto finito. A differenza che in una rasserenante esposizione museale, non è la perfezione del concluso, del pacificato, quel che interessa mostrarci. Forse invece più interessante è la fragilità e l’imprevedibilità di tutto ciò che è in fieri, come, in ogni momento, lo è ciascuno di noi, nella sua datità e precarietà esistenziale. Così, se anche non mancano stacchi narrativi dovuti ai tempi tecnici per passare da una macchina scenica all’altra, questo non fa scandalo. Ci dicono di loro, che si muovono in punta di piedi – quasi vestali nel cerchio sacro -, ora convergendo su una stessa macchina scenica, ora facendo convergere l’effetto di più macchine in immagini dall’evocatività sovrapposta e amplificata.

Pur nella delicata liricità di tutto il lavoro, le scene forse più suggestive sono quelle legate all’acqua.

Unterwasser, che in tedesco significa appunto sott’acqua, sembrano muoversi perfettamente a loro agio in quell’elemento a proposito del quale scrivono: “Sott’ acqua è un bacino di ricerca teatrale dove si indagano le potenzialità poetiche, evocative e comunicative del teatro di figura. […] Sott’ acqua è anche oscuro, profondo, denso. Profondi sono i temi che ci domandano di essere scandagliati e portati alla luce. Sott’ acqua la voce non ha lingua, le parole diventano suono e i significati si colgono con gli occhi. Ricerchiamo un teatro visuale, universale, silente” Così, seguendo ancora una volta le loro parole, non resta che infrangere lo specchio della superficie e immergersi.

Uno sguardo nel liquido labirinto di MAZE

di Mauro Caron, Into The Wonderland, 04/12/19

 

[…] La settimana scorsa il PimOff ha dato spazio a Maze, un lavoro della compagnia UnterWasser, composta da Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio. Maze è un lavoro ibrido, che mescola teatro di figura, performance, scultura, arti visuale e cinema (senza dimenticare il fondamentale apporto musicale e sonoro firmato da Posho).
L’impressione entrando in sala è di trovare sul pavimento del palco un meccano scomposto e disseminato, un incomprensibile repertorio di oggetti o parti di essi. Quando le luci si spengono, entrano in questo spazio segnico tre donne vestite con tute nere, sorta di parche benigne (prima di diventare le tessitrici dei destini umani le Parche tutelavano la gravidanza e la nascita), che ridonano forma, anima e vita a quegli oggetti incompleti e inanimati. Lo spettacolo cui guardare, anche se le tre figure in nero non scompaiono mai realmente dalla nostra vista, non è sul palco, ma sullo schermo bianco della parete di fondo, che si accende e si anima grazie alle luci proiettate dalle tre ragazze da varie fonti luminose sparse sul terreno. Davanti alla luce vengono fatti passare dalle tre performer mobiles di pezzi di legno, di ferro o di cartone, silhouette ritagliate, sculture in fil di ferro, vetri lungo i quali scorrono gocce d’acqua, oggetti, le mani e anche i piedi delle stesse attrici.
All’inizio non è che un limbo verdastro, dove galleggiano forme simili a stecchi e bastoncini, solcato da riflessi di luce, che si fanno sempre più intensi. Più avanti vedremo due volti stilizzati, disegnati con il filo di ferro affacciarsi allo schermo, uno maschile e uno femminile, che si avvicinano e si allontano, mentre un diaframma scuro cala ritmicamente a oscurare per un attimo lo schermo. Poi vedremo le cime di alberi spogli passare sopra di noi sullo schermo, poi un parco giochi, il viso di una bambina curiosa che si avvicina. Con sorpresa, scopriamo che stiamo guardando il mondo con gli occhi di una bimba, prima all’interno del ventre materno, poi nella propria cameretta, in una carrozzina, e così via.
Se l’animazione e il racconto senza parole sono puramente oggettuali, realizzati e suscitati con materiali disparati e insospettabili, tutto lo spettacolo è rigorosamente costruito su uno sguardo in soggettiva, scandito dal battere delle palpebre, mentre il gioco del movimento e della distanza dalla fonte luminosa simula la dialettica fuoco/fuori fuoco dell’attenzione dello sguardo o di una macchina da presa.
La protagonista viene accompagnata – o meglio è il suo sguardo che ci guida – attraverso varie fasi e vari momenti della propria vita: il paesaggio che cambia fuori dalla finestra, con massicci palazzoni (in realtà reticolati filiformi) che prendono il posto degli alberi, il rumore crescente delle macchine e del traffico, la presenza delle altre persone, addirittura un intervento chirurgico subito in ospedale, poi la scoperta incantata del nuoto, prima in piscina, poi in mare aperto.
La dialettica tra le forme geometriche e ostili del mondo dell’uomo (i palazzi, i corridoi e le scale di case e ospedali) e la dimensione fluida e libera dell’acqua (il liquido amniotico della prima sequenza, l’acqua della piscina o i fondali marini) percorre tutto lo spettacolo, che si chiude come in un cerchio in una dimensione area, dove gli uccelli che solcavano il cielo all’inizio diventano dei gabbiani, gli alberi delle vele sul mare o i lampioni di un lungomare dove la giovane protagonista danza insieme ad un compagno. Prima che lo schermo si sciolga in un cielo nero disseminato e trapunto di stelle, e che il ciclo liquido della vita riprenda un altro giro.
Le autrici citano come fonte del loro lavoro – privo di dialoghi e parole – l’influenza di poetesse come Mariangela Gualtieri, Emily Dickinson, Etty Hillesum, Wislawa Szymborska, Laurie Anderson, e come riferimenti visivi il disegno a linea continua di Steinberg e la morbidezza del tratto di Modigliani, i disegni cuciti di Maria Lai, le architetture in rete metallica di Tresoldi e le sculture mobili di Calder.
Indubbiamente le UnterWasser sono riuscite nell’intento di creare, in una dimensione naïf, quasi infantile e fiabesca, un proprio suggestivo linguaggio lirico e onirico, capace però di una sua riconoscibile e apprezzabile narratività.
Oltre al già citato evocativo sound design creato da Posho rimane da ricordare la fondamentale progettazione luci firmata da Matteo Rubagotti.

 

Ci sono spettacoli ai quali sarebbe bene pensare a lungo prima di scriverne. Il passare del tempo permette di assaporare fino in fondo il potere delle immagini impresse nella mente e di soppesarne l’impatto emotivo.

Questo vale in particolare per il magico Maze del giovane gruppo tutto al femminile UnterWasser che sperimenta da tempo le possibili interazioni tra l’ arte figurativa e il teatro. Le giovani componenti del gruppo di ricerca, Giulia De Canio, Valeria Bianchi e Aurora Buzzetti, provengono da esperienze artistiche diverse e il loro lavoro trova un punto d’incontro nella contaminazione delle esperienze di ognuna: teatro di figura, scultura e arte visuale. Il loro teatro si avvale della musica, ma non delle parole, per trasportare lo spettatore in un mondo onirico fortemente evocativo in cui perdersi per poi ritrovarsi.

Maze è stato presentato a Kilowatt Festival alla fine di luglio e il giorno successivo l’ensamble ha ottenuto il prestigioso Premio Walter Ferrara 2019, nell’ambito del Premio Radicondoli per il Teatro, per l’originale uso di nuove tecnologie e per la ricchezza poetica del loro lavoro.

Maze si sviluppa su due piani, quello visivo del film di figura e quello performativo. Le immagini sono assolutamente predominati, ma l’occhio dello spettatore è attratto anche dalle performer che agiscono in scena per creare le sequenze, montate in modo cinematografico, che scorrono contestualmente sul grande schermo posto sul fondo. In avanscena sono sparpagliati i loro strumenti di lavoro. Una miriade di oggetti visibile prima che lo spettacolo abbia inizio e che, inevitabilmente, stimola tante curiosità nell’osservatore attento. Ci sono tante luci al led con gelatine azzurre o trasparenti, alberelli, figurine umane realizzate in fil di ferro, una corona con tanti profili umani che si stagliano sul bordo, una struttura con base lignea sormontata da grate di ferro, due aste con piccoli pezzi di ramo pendenti che rimandano volutamente a Alexander Calder.

Grazie a un sapiente uso di luci e ombre, l’atto creativo è visibile nel suo farsi, divenendo in questo modo parte integrante dell’opera d’arte in se stessa. Dunque, le figurine in fil di ferro mosse dalle performer sotto le fonti luminose utilizzate come telecamere, divengono contemporaneamente protagoniste della storia frammentaria raccontata sullo schermo. E’ compito dello spettatore colmare i vuoti, interpretare le immagini secondo il suo sentire, rintracciare relazioni nei movimenti delle figure. E’ una lunga soggettiva che associa immagini di vita, dal concepimento al primo amore e alla vita adulta di una eterna bambina. Il punto di vista non è solo femminile, come si potrebbe pensare, ma è profondamente umano e ci riguarda tutti.

Scorrono velocemente volti di donna, interni di stanze dell’infanzia, rondini che sfrecciano nel cielo, una bimba che va in altalena, una giostra che gira su se stessa e poi, bellissimi, gli aquiloni che volano in alto. Poi una sala operatoria evocata da volti protetti da mascherine da chirurgo. Folle anonime in una città alienante e poi l’acqua, le vele, i gabbiani con tutto il loro portato simbolico. Tante altre immagini ancora, e alla fine, proprio come all’inizio, le ombre dei rametti che fanno pensare al concepimento di una nuova vita.

Il filmato è fortemente poetico e fa venire in mente i versi di Emily Dickinson, di Wislawa Szymborsa, di Mariangela Gualtieri e di altre ancora. Le sonorità curate da Posho aderiscono alle immagini e ne potenziano il dinamismo che a tratti rallenta per creare pause di sospensione magica. Le immagini rimandano a Modigliani, a Steinberg e a Maria Lai.

Si ammira la perizia tecnica, la misura, il coordinamento perfetto di tutti gli elementi dello spettacolo e dei singoli gesti delle performer e degli altri operatori. Un lavoro minuzioso che giunge a ottimi risultati.

Il pubblico viene trascinato in una girandola di visioni che non si può dimenticare.

Kilowatt Festival: Sansepolcro visto dalla Luna.

di Andrea Zangari, Scenecontemporanea, 13/08/2019

 

“…Sguardo e luce sono anche l’oggetto dell’indagine del gruppo Unterwasser, che con MAZE intreccia le tecniche del teatro d’ombra a un montaggio narrativo senza parola, costruito per successioni di archetipi visivi. Il palco dell’Auditorium Santa Chiara appare saturo di piccoli e grandi dispositivi in fil di ferro, che le tre performer retroilluminano di volta in volta, proiettandone sul fondale il profilo filiforme. Emergono figure dai contorni svuotati, arricchiti di quando in quando da luci colorate, schermi rigati d’acqua ed altre figure sovrimpresse. MAZE è antinarrativo ma anche, paradossalmente, antifigurativo: le immagini, che suggeriscono scenari di una vita femminile dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità, si prestano a compaginare con le memorie di ogni spettatore. Un parco, una cameretta, un cielo, una città, una spiaggia. Lo statuto dell’immagine che la performance definisce è di sottile valenza filosofica: ci viene mostrato la soglia dell’apparire dei segni. Non un banale e retorico evocare l’invisibile, ma una ponderatissima indagine sulla misura minima del farsi senso, del fare una storia: del farla, peraltro, tutti insieme, proiettando sullo stesso fondale la propria memoria e il proprio desiderio. MAZE è infatti il labirinto, figura appunto emblematica della tradizione filosofica, che ci parla per metafora della costruzione di senso che ciascuno deve operare. «Il labirinto […] non è mai il caos, ha un ordine: parte da tanti centri e permette a ciascuno di costruirsi non solo la strada ma anche l’uscita. Il ‘comune’ di questi diversi percorsi è l’aperto, quel ‘quid’ cui si tende senza riuscire a definirlo, perché la verità non è un possesso» (Massimo Cacciari, Il labirinto filosofico). In tal senso lo spazio scenico non ha nessuna distinzione rispetto alla platea: c’è un abbattimento vero della quarta parete, per il quale le tre artiste vivono di fronte all’immagine, seppur da loro innescata, lo stesso grado di separazione che sconta il pubblico. È emozionante constatare con quanta cura gestuale Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio preparino l’incanto, per poi sottrarsi alla scena, facendo del piano orizzontale del palcoscenico un’officina a cielo aperto.”

MAZE, un piccolo gioiello d’ombra

di Andrea Porcheddu, Gli Stati Generali, 3/06/19

 

Si è molto parlato, recentemente, degli spazi di SpinTime, il palazzo occupato a poche centinaia di metri da Piazza Vittorio, a Roma.

Un palazzone di 9 piani, dove vivono quasi 500 persone, molteplici etnie, diverse generazioni: spazio vivacissimo non solo di integrazione e socializzazione, ma anche di attività, con laboratori, mostre, concerti,  teatro e molto altro (ne scrivevo anche qui).

Il palazzo è assurto agli onori della cronaca perché, dopo due giorni di blackout – avevano staccato la luce – l’Elemosiniere del Papa, cardinale Konrad Krajewski, si è preso la briga di schierarsi (non con gli occupanti, ma in nome della misericordia, della fratellanza, della accoglienza di cui parla spesso Papa Francesco) e riattaccare la luce.

Così, rinfrancati da questo vero e proprio Deus ex Machina, i componenti il collettivo che gestisce lo spazio teatrale, radunati sotto il nome di SpinOff, ha continuato con rinnovato entusiasmo l’attività. Tra l’altro era bello notare che fossero proprio quei giovani teatranti a “far presidio” nei giorni dell’oscurantismo, simbolico e reale: stazionando davanti l’ingresso, hanno organizzato una raccolta firme e iniziative di sensibilizzazione, come una serata di spettacolo alla luce di torce portate da casa dagli spettatori. Bel coraggio, bell’entusiasmo davvero: anche così si ridà senso alla pratica teatrale, stando là dove accadono le cose.

Insomma, adesso che questo teatro è – parafrasando i Blues Brothers – in “missione per conto di Dio”, la programmazione si fa ancora più viva e interessante.

Questo fine settimana, ad esempio, abbiamo visto un vero e proprio gioiello.

Sto parlando di Maze, ultima creazione del gruppo tutto al femminile Unterwasser, compagine che già si fece notare per il delicatissimo e poetico Out, spettacolo – come si dice – per grandi e piccini che riscosse grande successo.

Successo replicato con Maze: la nuova produzione si è aggiudicata il secondo posto al Premio InBox2019 e conferma, laddove ce ne fosse bisogno, il talento creativo di Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio.

Il loro è un teatro d’ombre, proiezioni di luce su un grande schermo: non ci sono telecamere né raffinate tecnologie, tutto anzi è estremamente artigianale, a vista, immediato ed efficacissimo. Materie povere (fil di ferro, acqua, cartone, legno…) che sapientemente trattate e illuminate creano ed evocano mondi, sensazioni, sentimenti.

Maze è una storia di candida semplicità: una storia di vita, dal concepimento fino all’incontro con la persona amata – e forse a un nuovo concepimento. Ma sta ad ogni singolo spettatore completare la proposta, riempire gli spazi lasciati liberi della narrazione, aprirsi alle suggestioni evocate dalle immagini.

Il collettivo Unterwasser gioca con gli archetipi della immaginazione, evoca situazioni, storie, incontri, turbamenti, solitudini, sogni. Vediamo crescere quella che potrebbe essere la protagonista: la cameretta da bambina, le giostre, l’amichetta con cui giocare, l’adolescenza inquieta, addirittura un ricovero in ospedale, la città desolata e desolante.

Ma non è la “trama” quel che conta, né la drammaturgia in senso stretto, piuttosto la scrittura scenica ossia la capacità evocativa di questo teatro di figure assolutamente consapevole e maturo.

La sua forza poetica, che si dipana su un tessuto sonoro fatto di rumori quotidiani e musiche suggestive (il sound design è curate da “Posho”), attanaglia gli spettatori: ciascuno vi può ritrovare tracce della propria autobiografia.

Le tre performer-animatrici, silenziose e precise, danno così vita a un film di figure, a ombre che scorrono sul fondale nella “soggettiva” della protagonista invisibile, di cui possiamo intuire il batter di ciglia, una mano, le braccia che si distendono a nuotare in un bagno in piscina che diventa un magico attraversamento di fantastici mondi sottomarini. Non ci sono limiti alla fantasia, sembrano dire le Unterwasser, né alla possibilità di sognare.

E per me, che sono ormai un attempato signore, quei giochi d’ombra, quell’altalena sotto gli alberi, con le rondini che cantano in cielo, scatenano una nostalgia feroce e commovente, per quel che era, per quei momenti che ormai non torneranno. Allora penso ai tanti che abitano SPinTime, a quei bambini che arrivano da chissà dove e vedo giocare nelle scale del palazzo, pieni di vita e di sogni.

La classe di In-Box 2019 festeggia 10 anni di circuitazione

di Mario Bianchi, Krapp’s Last Post  31/05/2019

 

[…] Di tutt’altro genere “Maze” (labirinto) del collettivo femminile UnterWasser, una live performance in cui Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio, utilizzano sul palco le più disparate fonti luminose per creare, su un grande schermo, l’illusione di assistere ad una pellicola cinematografica.

Ecco nascere in modo semplice e proficuo campi lunghi, dettagli, carrellate, soggettive che sono creati grazie al movimento di luci, oggetti dove anche i corpi delle performer diventano significanti.

Non ci sono parole ad accompagnare le immagini, ma una colonna sonora originale realizzata da Posho. L’occhio dello spettatore percepisce la realtà attraverso un altro occhio, specchio di un ulteriore mondo su cui agiscono gli occhi degli altri: un mondo che contiene i frammenti lirici di una vita che partecipa alle gioie e ai dolori dell’essere umano. Il tutto in modo anche squisitamente intellettuale, con citazioni poetiche ispirate a Mariangela Gualtieri e Wisława Szymborska, e figurative che rimandano a Steinberg, Tresoldi, Modigliani, Maria Lai e soprattutto a Alexander Calder.
Uno spettacolo raffinato che ci ha intrigato soprattutto quando le immagini lasciano la reinvenzione della realtà per immedesimarsi in una dimensione onirica.

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